Scendo le scale della casa di Marisol con un grosso zaino che mi impedisce di muovermi come vorrei, così ne approfitto per rallentare e salutarla ancora una volta. Sento Negro che abbaia, memorizzo i dettagli, abbraccio Ruben che mi aspetta con la porta aperta. Cerco con lo sguardo il nostro taxi ma davanti a me trovo solo una piccola Fiat degli anni ’50, verde, a terra, provata. Non può essere il nostro mezzo – penso – sarà una macchina condivisa, di quelle che ho imparato ad amare a L’Avana.
Mi si avvicina un tipo alto, baffuto e cicciotello che mi prende lo zaino. Sì, è il nostro taxi. Parla un dialetto cubano e probabilmente mi prende per un’autoctona. La cosa migliore da fare è sorridere e sperare di capire almeno due parole per poter ricomporre la frase ed eventualmente abbozzare una risposta. Mi guardo intorno: il nastro adesivo nero sostiene un volante ormai a pezzi, la serratura delle porte fa fatica a chiudersi, sullo specchietto l’adesivo della squadra del Barcellona e un cofano pieno di cianfrusaglie in cui entrano a fatica le nostre valigie.
Un déjà-vu attraversa la memoria: il primo incontro con Cuba è stato con un taxi impegnato in una gara di velocità con un’altra macchina per le strade deserte che mi hanno portato esattamente dove sono in questo momento. Ora ripercorro le stesse vie che mi hanno accolta per la prima volta, riconosco gli incroci, ammiro il lungomare in tempesta e la Piazza della Rivoluzione. Rimango in bilico prima di attraversare la porta di ingresso dell’aeroporto e mi giro per guadarla: ancora non ci credo di essere stata qui e di essermene innamorata, proprio io che ero partita senza aspettative. Purtroppo è arrivato il momento di salutarci, ma lo sta facendo nel modo più bello che potessi desiderare: un cielo tinto di rosa, arancione e viola che fa spazio alla sera. Cuba è una trama di colori, suoni e odori mescolati tra loro a creare una splendida opera senza sbavature, è come due, tre, quattro voci diverse che si amalgamano in una melodia coinvolgente che ha il sapore di unico. La sua indole pura e incurante del giudizio altrui, la sua verità buttata in faccia senza filtri, la sua naturalezza nell’affrontare una vita troppo difficile per essere presa sul serio, è un caleidoscopio di anime che si intrecciano diversamente a ogni passo.
Cuba è la sua musica ovunque e senza sosta: un binomio troppo forte per essere spezzato. Si sente per strada, nei locali e nei ristoranti. C’è sempre qualcuno intento ad accennare qualche passo, pronto a trascinare tutti con sé. Per me, che ho esperienza di una vita al di là dell’oceano, è come stare in un sogno, a metà tra lo stupore e l’eccitazione continua. Alla fine la salsa diventa parte integrante di quella voglia di avere un ritmo che appartenga solo a questa finestra di mondo da cui osservare tutto il resto. Cuba è ballare salsa, dalla Casa della Musica di Trinidad al piccolo locale a Vinales, dove mai ci si aspetterebbe tanta movida. E’ stato assolutamente inutile tirarsi indietro: mi hanno invitato troppe volte per poter anche solo pensare di rifiutare. Così non solo ho messo da parte la vergogna, ma mi sono anche maledetta per aver preso così superficialmente una questione estremamente seria e meritevole di maggiore considerazione. Sei tempi per un ritmo che trascina. No pasa nada chica, mi dicono quando cerco di giustificarmi per la mia incapacità di distinguere tra salsa e rumba. In fondo è necessario solo avere lo sguardo alto e le gambe morbide, dicono, il resto viene da sé. E così è stato.
Mi fermo a guardare le persone segnate dal sole e dalla polvere delle città in perenne crescita. Sono le stesse che spingono un banchetto pieno di platani, avocadi, limoni sbucciati e peperoncini assassini, o guidano un risciò senza perdere l’occasione di fischiarti almeno una volta. Nessuno sembra avere fretta, ma tutti hanno qualcosa da fare, soprattutto per strada, denso crocevia di storie e giochi, cibo e mercati. Pacatamente ordinati seppur in costante movimento, nei mercati la terra rossa si confonde con le rape e i fagioli, migliori amici del riso, vengono venduti sfusi e pesati su una bilancia arrugginita. Una bottiglia di plastica in rotazione, un filo e un piccolo ventilatore scacciano le mosche dalla carne appesa mentre dall’altra parte si vendono uova e zucchero. I beni primari vengono ancora passati dal governo tramite una tessera, ma bisogna andare nei negozi specifici, non per turisti. Qui invece posso comprare i dolci cubani: una vera e propria riserva di calorie da utilizzare nei periodi invernali. Mangio una barretta ogni mattina, ci dice un vecchietto a l’Avana proprio accanto a noi, intento a tirare fuori i suoi pesos, la moneta usata dai cubani.
Fuori è un altro mondo. Un verde intenso colora l’isola: palme e campi di banane si susseguono animatamente, i cavalli e le bici prendono il posto dei mezzi a quattro ruote. Niente a che vedere con le città, in cui la frenesia si mescola alla tradizione contadina. Mi pare di vederla la grande rete di strade della capitale in cui le auto sfrecciano, suonando il clacson e lasciando letteralmente poco spazio al respiro. Nastro adesivo, serrature rotte, vernice scolorita e buchi nei sedili sono le costanti delle macchine anni ’50 che colorano l’Avana e che mi portano dall’altra parte della città con dieci pesos. Una signora con le treccine, uno studente dell’università, un turista che si è innamorato di Cuba e ci è rimasto, una signora piena di profumo, due ragazzi serissimi che non possono fare a meno di ridere ascoltando i nostri commenti: tutte persone con cui ho condiviso un passaggio, di cui ho immaginato storie e a cui ho chiesto informazioni. La condivisione a Cuba è una cosa seria, così come l’orgoglio per una rivoluzione che sa di vittoria. Lo si vede per le strade locali e sull’autostrada: la rivoluzione si percepisce, viene ricordata sui cartelli e lungo i muri dei villaggi, viene menzionata nei discorsi in cui il passato rimane un modello di eroica resistenza da cui è possibile costruire un futuro.
E il futuro qui è anche tecnologia e innovazione: una lavatrice per lavare i panni, una macchina al posto del cavallo, un cellulare a colori, un tostapane e uno scarico per il bagno che sostituisca la bacinella. Il cambiamento è in corso ma non è detto che il modello occidentale, e soprattutto americano, sia necessariamente quello funzionante. Seppur anacronistica, la vita ha il ritmo rallentato di sessanta anni fa: la gente aspetta silenziosamente davanti ai negozi, sente la musica, sorride e si saluta. Si può passeggiare a qualsiasi ora del giorno e della notte senza essere minimamente disturbati. Solo da pochi mesi ci sono delle piazze in cui prende il wi-fi ma la verità è che non essere connessi e non vedere la coca-cola è uno dei veri lussi di Cuba, quasi al pari della fortuna di trovare Cayo Las Brujas completamente deserta o di pagare un mojito due CUC. La gente ha entusiasmo, ha gli occhi vivi e pieni di scoperta, ha poco e desidera poco. Lo si percepisce guardando l’Avana e Trinidad dall’alto, dove i palazzi moderni e quelli decadenti convivono in armonia: verde, azzurro, rosa, arancione, giallo sono i colori di queste città. In lontananza l’oceano a vegliare su una storia da preservare. Ecco, questo e molto altro è quello che ho amato di Cuba. Mi amor.