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Surf

Perché continuo a scrivere

Parlare è ricordare. Sentirsi addosso la sensazione di benessere è una necessità a volte. Credere che le emozioni possano vivere ancora e ancora, in quel flusso eterno che le lascerà per sempre impresse in un angolo della mente pronte all’uso.

Una cosa di cui ho sempre avuto paura è dimenticarmi i volti. Quando il tempo passa, i dettagli li dimentico. Nonostante tutto lo sforzo che ci metto, non ricordo. Senza appello. E non c’entra se è una persona che vedo tutti i giorni. Dimentico la voce, il colore esatto degli occhi. Non sono sicura se l’ultima volta fosse con o senza barba, con o senza capelli tagliati, con o senza colore.

Per lo stesso motivo cerco sempre di rimanere un tempo un po’ più lungo a contemplare un paesaggio sperando che riesca a fissare ogni particolare smagliante nella mia testa.

La verità è amara almeno quanto la realtà che la contorna. I ricordi corrono via, anche i più belli. L’unico modo che ci è stato regalato è ripercorrere alcuni momenti. Non i più importanti. Alcuni momenti semplicemente.

Questo perché la mente cerca di tenere a sé il più possibile, memorizza per immagini, suoni, odori. Mi concentro e si affacciano alla mente alcune scene della mia vita. A pensarci ora non sono quelle che avrei scelto, eppure bastano per ricomporre tutto. Anche se la rete della storia si sfilaccia, qualche filo rimane attaccato in un gioco di emozioni che ritornano indietro.

Anzi, tutto è forse ancora più affascinante: gli input esterni vengono assimilati da qualche parte in un autentico esercito di nodi che s’incontrano a formare un’ingarbugliata rete, il nostro intrinseco essere.

Ma qui si andrebbe oltre, e io preferisco dedicarmi a quello che so fare meglio: ripercorrere le emozioni. Un po’ è passione, un po’ è necessità. Scrivere diventa conservare una parte di me nei frammenti delle parole quando la memoria è troppo fragile per cogliere ogni sfumatura. Alcune saranno nascoste tra le pagine di un diario, altre sono qui e fluttuano sulla mia tastiera aspettando di essere realizzate.

Questo è il mio motivo. C’è una spinta inarrestabile ad andare avanti. Quando vorresti smettere c’è una forza che ancora una volta ti dà un appoggio per non cadere.

Aprirò una nuova rubrica. Sarà sul mare, su uno sport, e sui posti che ho visto. Questo è il mio modo di ricordare. Questo è il mio motivo. Il mio inizio.

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Medio Oriente

Cara Giordania, questo è il mio grazie

“Yalla Yalla” è il richiamo che mi riporta alla realtà. Altrimenti sarei persa nei miei pensieri e nell’obiettivo della mia macchina fotografica che cerca di cogliere ogni istante di questa esperienza.

Da qualche parte ho scritto “indelebile”, forse è in questo modo che volevo fosse la Giordania. Aspettavo che mi colpisse violentemente, così da sentire la botta il più a lungo possibile. La mia prima volta in Medio Oriente, in una cultura che mi tira a sé in uno stridente e caloroso abbraccio, tra gente sorridente, poco libertina e capace di lasciare un segno.

Ho vissuto una settimana pensando ne fossero passate dieci. Il tempo t’inganna quando aspetti una cosa per un lungo periodo. Si dilata con lo spazio diversamente da come siamo abituati: un giorno diventano cinque, e contemporaneamente zero. Il sapore è quello di essere appartenuto a quel posto da sempre. Così il cervello smette di funzionare e iniziano a contare solo le emozioni. Per questo mi sono aggrappata ad ogni attimo. Sempre per lo stesso motivo: sperando non passasse veloce.

Volevo che la Giordania avesse l’opportunità di entrare in me. Volevo potessi sognare di tornare. Ed è così ora, non mi basta. La Giordania va conosciuta più profondamente, cercando un rapporto vero e duraturo perché è uno di quei posti in cui non è sufficiente andare una volta per mettere una bandierina sul mappamondo e soddisfare la propria innata curiosità.

Ho ammirato chilometri di paesaggio desertico, uno degli aspetti che mi ha colpito di più. Più di Petra, del Tesoro, del canyoning? Forse no, ma mi è rimasto in maniera diversa.

Il panorama giordano è malinconicamente bello.

In alcune zone è più o meno sempre lo stesso fino a quando arriva un piccolo villaggio, povero e con qualche negozio disordinato, che si affretta a spezzare la monotonia. E’ un equilibrio in bilico tra oggi e domani, tra la voglia di andare avanti ed il cuore nelle tradizioni, tra divise scolastiche e fili di kajal agli occhi. Basta lasciare le vie principali per scoprire strade sterrate dove non passano macchine per chilometri, capre e pastori pascolare tra una fitta vegetazione di fichi d’india e scovare i bambini che, nell’attesa, giocano a fare tuffi da una piccola cascata.

Ci sono loro, le persone, con cui avrei voluto parlare di più. Ti guardano dal finestrino con un misto di curiosità, interesse e apertura. E’ proprio così, con questa spontaneità, che ci si ritrova nella cucina di un piccolo ristorante a gestione familiare, cercando di comunicare con i sorrisi: l’unica vera forza. Sorridono, si nascondono, ti offrono il tè e ti rendono partecipi di balli e canti locali. Rispondono alla cortesia con cortesia. La gente in Giordania è ospitale e dedita agli altri, tollerante e aperta ad ogni tipo di credo.

Questo paesaggio mesto ha fatto da cornice ad un itinerario percorso da nord a sud, tra tante risate, spiegazioni storiche, visioni culturali e giusto qualche riposino.

La storia qui in Giordania si intreccia nei secoli perché è qui che hanno preso forma alcune delle culture che, in un modo o nell’altro, hanno influenzato la nostra vita odierna. Il senso di impotenza che si ha calpestando alcuni di questi luoghi, rende tutto ancora più magico. Come lo è l’incanto del muezzin che risuona poeticamente nelle città suscitando un certo effetto, anche su di me. La preghiera scandisce le ore del giorno, offre ordine e equilibrio, disciplina e dedizione. E’ una dolce sinfonia che crea un’atmosfera colma di partecipazione, comunione e condivisione.

La Giordania è una piccola oasi che ha bisogno della sua importanza. Ho cercato di capirla intimamente ed ho lasciato che anche lei mi rapisse, che si creasse un legame. Necessita della giusta attenzione per non spegnersi e farsi trascinare dalle voci che la vogliono insicura. La Giordania si mostra com’è, senza aspettarsi nulla in cambio.

Io, intanto, i sorrisi me li tengo stretti e aspetto di rivederli presto. Cara Giordania, sei arrivata dopo tanto tempo, ma questo è il mio grazie.

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Un consiglio per l’inverno: lasciatevi prendere dall’Australia

Quello che vi immaginate dell’Australia per la maggior parte delle cose è vera. E’ un sogno in cui la Natura domina incontaminata, le bellezze sono armoniosamente integrate con il paesaggio umano e gli animali sono liberi negli spazi aperti.

Per chi ci passa poco tempo resta in memoria un miraggio da cui è difficile liberarsi. La biodiversità unica al mondo si impossessa di ogni emozione, prepotentemente. La gente scalza, i colori, le albe e i tramonti, gli animali, le onde calme di un oceano che sembra non voler accettare la frenesia del mondo, saranno impressi nella mente.

La costa orientale, da Melbourne a Cairns è come una tavolozza di un artista impazzito. I paesaggi cambiano, i parchi naturali fanno posto a distese di sabbia bianca e mare cristallino. Le città, come Sydney, sono una rete di culture: basta sedersi in un angolo per avere storie da raccontare. Nulla è lasciato al caso. La Barriera Corallina è lì, nella sua maestosità, fidandosi delle persone che ne avranno cura.

E’ anche quel posto per chi ci crede, per chi lavora per costruirsi il futuro, per chi guarda avanti. L’Australia va più veloce di qualsiasi altro Paese e non aspetta nessuno. Si vive nel futuro, coccolati dal fascino della quotidianità.

E’ un luogo in cui le consapevolezze vibrano su un’altra frequenza. Bisogna spogliarsi di convinzioni e modi di fare. In Australia non esistono.
L’aspetto è messo in secondo piano: si valuta la persona. Ci si può presentare ad un colloquio in canottiera e infradito senza essere guardati male. Qui bisogna dimostrare, con le proprie forze, di essere la persona giusta al momento giusto. Non ho detto che sia facile e sia concesso tutto. I rapporti sono diretti, sinceri, privi di costrizioni.

E’ il Paese per chi ancora ha delle speranze e per chi ha fatto della flessibilità la propria arma vincente. Nessun lavoro è una priorità della vita, le gioie sono altre. Per esempio, dedicarsi a qualsiasi attività che permetta di sentirsi vivi è quasi una missione alla ricerca del benessere fisico e mentale.

Ha anche tanti difetti, forse dettati dalla sua voglia di crescere. E’ un continente nuovo e con questo intendo desideroso di crearsi una storia, senza accorgersi di essere già al centro di essa. Non si vede, ma si percepisce il cambiamento, anche mentale.

Probabilmente non realizza ancora di avere un patrimonio naturalistico che pochi al mondo hanno. Miniere, piattaforme e deforestazioni stanno prendendo arrogantemente il posto della Natura. Lo capirà quando non ci sarà più il tempo di tornare indietro.

Il progresso, soprattutto per chi ha necessità di imporsi nel mercato mondiale, è una priorità.

La superficialità con cui considerano la cultura della loro Terra è spesso incomprensibile. Gli estremismi sono così accentuati da lasciare storditi per alcuni minuti.

Il lavoro è un punto centrale nella loro economia. Sanno di essere il sogno di tante persone e chiunque non sia australiano è semplicemente un immigrato. Funziona esattamente come in ogni altro paese: gli autoctoni non vogliono svolgere alcune attività e al loro posto ci sono gli stranieri.

Dire che sia giusto o sbagliato probabilmente non ha senso, però bisogna essere consapevoli di questo. Se non si lavora per creare altro l’Australia concede un anno, al massimo due (le guide di Angelo vi chiariranno molte idee).

Non c’è niente di errato se si parte senza aspettative di conquista. L’esperienza è forse il dono più grande che la vita e, in questo caso, un viaggio possano regalare. In caso contrario, l’Australia non è un paese che aspetta noi.

Regala ma non elargisce. Ha aspetti positivi e negativi ma non è il paese dei balocchi. Incanta e lascia con un sorriso malinconico di un tempo impossibile da arrestare. E’ il posto delle opportunità se si è capaci di coglierle. E’ il luogo della Terra da visitare almeno una volta nella vita, senza pensieri.

C’è da andare e riempirsi gli occhi.

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Mondo

Le cose che ho amato di Cuba

Scendo le scale della casa di Marisol con un grosso zaino che mi impedisce di muovermi come vorrei, così ne approfitto per rallentare e salutarla ancora una volta. Sento Negro che abbaia, memorizzo i dettagli, abbraccio Ruben che mi aspetta con la porta aperta. Cerco con lo sguardo il nostro taxi ma davanti a me trovo solo una piccola Fiat degli anni ’50, verde, a terra, provata. Non può essere il nostro mezzo – penso – sarà una macchina condivisa, di quelle che ho imparato ad amare a L’Avana.

Mi si avvicina un tipo alto, baffuto e cicciotello che mi prende lo zaino. Sì, è il nostro taxi. Parla un dialetto cubano e probabilmente mi prende per un’autoctona. La cosa migliore da fare è sorridere e sperare di capire almeno due parole per poter ricomporre la frase ed eventualmente abbozzare una risposta. Mi guardo intorno: il nastro adesivo nero sostiene un volante ormai a pezzi, la serratura delle porte fa fatica a chiudersi, sullo specchietto l’adesivo della squadra del Barcellona e un cofano pieno di cianfrusaglie in cui entrano a fatica le nostre valigie.

Un déjà-vu attraversa la memoria: il primo incontro con Cuba è stato con un taxi impegnato in una gara di velocità con un’altra macchina per le strade deserte che mi hanno portato esattamente dove sono in questo momento. Ora ripercorro le stesse vie che mi hanno accolta per la prima volta, riconosco gli incroci, ammiro il lungomare in tempesta e la Piazza della Rivoluzione. Rimango in bilico prima di attraversare la porta di ingresso dell’aeroporto e mi giro per guadarla: ancora non ci credo di essere stata qui e di essermene innamorata, proprio io che ero partita senza aspettative. Purtroppo è arrivato il momento di salutarci, ma lo sta facendo nel modo più bello che potessi desiderare: un cielo tinto di rosa, arancione e viola che fa spazio alla sera. Cuba è una trama di colori, suoni e odori mescolati tra loro a creare una splendida opera senza sbavature, è come due, tre, quattro voci diverse che si amalgamano in una melodia coinvolgente che ha il sapore di unico. La sua indole pura e incurante del giudizio altrui, la sua verità buttata in faccia senza filtri, la sua naturalezza nell’affrontare una vita troppo difficile per essere presa sul serio, è un caleidoscopio di anime che si intrecciano diversamente a ogni passo.

Cuba è la sua musica ovunque e senza sosta: un binomio troppo forte per essere spezzato. Si sente per strada, nei locali e nei ristoranti. C’è sempre qualcuno intento ad accennare qualche passo, pronto a trascinare tutti con sé. Per me, che ho esperienza di una vita al di là dell’oceano, è come stare in un sogno, a metà tra lo stupore e l’eccitazione continua. Alla fine la salsa diventa parte integrante di quella voglia di avere un ritmo che appartenga solo a questa finestra di mondo da cui osservare tutto il resto. Cuba è ballare salsa, dalla Casa della Musica di Trinidad al piccolo locale a Vinales, dove mai ci si aspetterebbe tanta movida. E’ stato assolutamente inutile tirarsi indietro: mi hanno invitato troppe volte per poter anche solo pensare di rifiutare. Così non solo ho messo da parte la vergogna, ma mi sono anche maledetta per aver preso così superficialmente una questione estremamente seria e meritevole di maggiore considerazione. Sei tempi per un ritmo che trascina. No pasa nada chica, mi dicono quando cerco di giustificarmi per la mia incapacità di distinguere tra salsa e rumba. In fondo è necessario solo avere lo sguardo alto e le gambe morbide, dicono, il resto viene da sé. E così è stato.

Mi fermo a guardare le persone segnate dal sole e dalla polvere delle città in perenne crescita. Sono le stesse che spingono un banchetto pieno di platani, avocadi, limoni sbucciati e peperoncini assassini, o guidano un risciò senza perdere l’occasione di fischiarti almeno una volta. Nessuno sembra avere fretta, ma tutti hanno qualcosa da fare, soprattutto per strada, denso crocevia di storie e giochi, cibo e mercati. Pacatamente ordinati seppur in costante movimento, nei mercati la terra rossa si confonde con le rape e i fagioli, migliori amici del riso, vengono venduti sfusi e pesati su una bilancia arrugginita. Una bottiglia di plastica in rotazione, un filo e un piccolo ventilatore scacciano le mosche dalla carne appesa mentre dall’altra parte si vendono uova e zucchero. I beni primari vengono ancora passati dal governo tramite una tessera, ma bisogna andare nei negozi specifici, non per turisti. Qui invece posso comprare i dolci cubani: una vera e propria riserva di calorie da utilizzare nei periodi invernali. Mangio una barretta ogni mattina, ci dice un vecchietto a l’Avana proprio accanto a noi, intento a tirare fuori i suoi pesos, la moneta usata dai cubani.

Fuori è un altro mondo. Un verde intenso colora l’isola: palme e campi di banane si susseguono animatamente, i cavalli e le bici prendono il posto dei mezzi a quattro ruote. Niente a che vedere con le città, in cui la frenesia si mescola alla tradizione contadina. Mi pare di vederla la grande rete di strade della capitale in cui le auto sfrecciano, suonando il clacson e lasciando letteralmente poco spazio al respiro. Nastro adesivo, serrature rotte, vernice scolorita e buchi nei sedili sono le costanti delle macchine anni ’50 che colorano l’Avana e che mi portano dall’altra parte della città con dieci pesos. Una signora con le treccine, uno studente dell’università, un turista che si è innamorato di Cuba e ci è rimasto, una signora piena di profumo, due ragazzi serissimi che non possono fare a meno di ridere ascoltando i nostri commenti: tutte persone con cui ho condiviso un passaggio, di cui ho immaginato storie e a cui ho chiesto informazioni. La condivisione a Cuba è una cosa seria, così come l’orgoglio per una rivoluzione che sa di vittoria. Lo si vede per le strade locali e sull’autostrada: la rivoluzione si percepisce, viene ricordata sui cartelli e lungo i muri dei villaggi, viene menzionata nei discorsi in cui il passato rimane un modello di eroica resistenza da cui è possibile costruire un futuro.

E il futuro qui è anche tecnologia e innovazione: una lavatrice per lavare i panni, una macchina al posto del cavallo, un cellulare a colori, un tostapane e uno scarico per il bagno che sostituisca la bacinella. Il cambiamento è in corso ma non è detto che il modello occidentale, e soprattutto americano, sia necessariamente quello funzionante. Seppur anacronistica, la vita ha il ritmo rallentato di sessanta anni fa: la gente aspetta silenziosamente davanti ai negozi, sente la musica, sorride e si saluta. Si può passeggiare a qualsiasi ora del giorno e della notte senza essere minimamente disturbati. Solo da pochi mesi ci sono delle piazze in cui prende il wi-fi ma la verità è che non essere connessi e non vedere la coca-cola è uno dei veri lussi di Cuba, quasi al pari della fortuna di trovare Cayo Las Brujas completamente deserta o di pagare un mojito due CUC. La gente ha entusiasmo, ha gli occhi vivi e pieni di scoperta, ha poco e desidera poco. Lo si percepisce guardando l’Avana e Trinidad dall’alto, dove i palazzi moderni e quelli decadenti convivono in armonia: verde, azzurro, rosa, arancione, giallo sono i colori di queste città. In lontananza l’oceano a vegliare su una storia da preservare. Ecco, questo e molto altro è quello che ho amato di Cuba. Mi amor.

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Surf

Il vulcano, l’artista e l’oceano: Lanzarote

Ci sono stata anni fa e avevo già capito che in questo posto avrei lasciato un pezzettino di me. Sono tornata e ne ho avuto la conferma. Lanzarote è l’isola della mia fantasia di viaggio: potenza senza confini di una Natura selvaggia.

Dichiarata Riserva della biosfera dall’UNESCO, il paesaggio è quasi surreale. Bisogna abituarsi alle lunghe distese di terra nera, ricordi di una eredità vulcanica ancora viva. Un’isola così piccola da poterla percorrere in poche ore, ma ogni luogo ha il suo tempo e non è questo lo spirito di Lanzarote. Non è un’isola per una fugace vacanza.

Lanzarote è stata l’amore di un artista spagnolo, César Manrique, il quale è riuscito a condensare l’armonia della Natura con opere di incantevole bellezza. Inutile dire che solo queste meritano un viaggio.

La sua casa, diventata ora la Fundaciòn César Manrique, è un incontro di lava e roccia, chiaro e scuro, da cui è stato ricavato un ambiente a dir poco caratteristico. La Natura stessa è protagonista di Jameos del Agua e Cueva de Los Verdes, due caverne vulcaniche in cui luci, riflessi e acqua giocano a rincorrersi.

Senza dimenticare Mirador del Rìo, da cui si gode il panorama sulla preziosa isola de La Graciosa, del Jardin de Cactus e del Ristorante del Diablo nel Parco Nazionale Timanfaya, forse l’espressione più concreta della sinergia che si respira sull’isola.

Ma non è di questo che voglio parlare. Lanzarote mi ha colpita soprattutto per i suoi ritmi lenti, il suo paesaggio costantemente calmo, i suoi colori inquieti e antitetici, la sua capacità di passare dal caos di Puerto del Carmen alla pace irreale delle calette.

E come ogni isola, è dominata dall’oceano. La sua forza si scaglia senza paura lungo le rocce frastagliate della costa e arriva con calore materno alla spiaggia dei surfisti. Famara: il mio vero amore.

La si può raggiungere con una sola strada e non ci si accorge neanche di essere capitati in un centro abitato. Anche qui un artista non avrebbe potuto fare meglio: le case sono bianche, basse, con tocchi di colore dal blu al rosso. Un supermercato, un paninaro, due localini per la birra serale e piedi scalzi.

La vera protagonista è lei: la scogliera del Risco che veglia fiduciosa sui surfisti che entrano -correndo come al solito- nell’oceano. Sembrano non percepire il brivido di gelo al contatto con l’acqua, ma c’è. E si impossessa in un attimo del corpo, scorrendo dentro la muta senza pietà. E’ la voglia di stare in acqua, prima di ogni altra cosa, a essere più forte di tutto. L’oceano diventa così il compagno di giochi, in un continuo scambiarsi di onde e trick.

Basta aspettare il tramonto per cogliere tutto ciò che questo luogo riesce a trasmettere. Il cielo si tinge di arancio, il sole si nasconde dietro l’orizzonte e lascia solo il ricordo nel riflesso della marea che sale. Gli schiamazzi del giorno e le urla di gioia per un’onda presa bene si acquietano per lasciare spazio alla pace.

La maggior parte degli spot hanno un fondale costituito da roccia lavica, spesso tagliente. Naturalmente questi luoghi sono consigliati a surfisti molto esperti. Si trovano a nord, sia sulla costa ovest che quella est.
Famara, accanto alla scogliera del Risco e davanti alla Graciosa, è una delle spiagge più note per le persone alla prima esperienza con il surf. Il fondale sabbioso perdona ogni caduta e tecnica sbagliata. Attenzione però al vento forte e alla potente corrente oceanica.

Nonostante il paesino sia molto piccolo, ci sono diversi surf camp. Io avevo scelto Calima Surf per i prezzi assolutamente competitivi. La Surf House era pulita, ampia e a pochi passi dalla spiaggia. Per non parlare del terrazzo con vista sul mare: un gioiello.

Per altre informazioni su Lanzarote potete visitare il sito della mia amica Farah, Viaggi nel Cassetto.